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La disfatta della Legge Pinto: una battaglia oramai persa!

La strada della giustizia è lunga, si sa, ma nel caso di un procedimento penale si computa, ai fini del termine previsto dalla legge Pinto, la fase delle indagini preliminari oppure si deve fare riferimento solo alla fase successiva ( decreto di citazione a giudizio, udienza preliminare ecc.) ? A questa domanda risponde la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22922 del 4 novembre scorso sottolineando che l’imputato può chiedere che vengano computate anche le indagini preliminari nel processo penale solo se dimostra di avere avuto effettiva conoscenza di esse. Nel caso in esame Tizio era stato tratto a giudizio per violazione degli obblighi di assistenza familiare ,chiedendo, poi, in sede civile, l’equa riparazione per l’irragionevole durata del suo giudizio, ancora pendente al momento della domanda d’indennizzo. La Corte d’appello adita rigettava la richiesta e l’uomo proponeva ricorso per cassazione. La questione è quella oramai famosa della lesione dei diritti alla base della legge Pinto, diritto però spesso rimasto sulla carta e che lo Stato cerca sempre di comprimere in maniera notevole, chissà perché! Infatti c’è di che gridare allo scandalo se solo si pensa che le recenti riforme, presentate nel maxiemendamento alla ddl Stabilità, prevedono che le parti di un processo troppo lungo possono ottenere soltanto il rimborso di un importo pari al contributo unificato: niente più equa riparazione. In Italia si riesce a stravolgere anche le direttive della Comunità Europea e a farsi tornare tutto ed il contrario di tutto…..ovviamente basta che ciò sia a scapito del cittadino!
Ad oggi , però, anche se presumo per poco la legge Pinto sopravvive come l’ultimo combattente di un esercito oramai sconfitto e quindi finchè non perirà è giusto che combatta. Ovviamente a limitare i diritti del cittadino vi è anche un cercare di sopprimere e restringere le maglie risarcitorie anche in costanza di sopravvivenza della legge Pinto. Ma d’altronde come si può pretendere che magistrati diano via libera a risarcimenti che comunque sono una condanna di inadempienza di propri colleghi? Pretendere un po’ di logicità quando si fanno le leggi, sembra davvero pretendere la Luna! Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha ritenuto di rigettare la richiesta dell’imputato. Secondo una giurisprudenza ormai consolidata, in conformità a quanto disposto dalla Cedu, la giusta durata di un processo, nei due gradi di giudizio, è pari a 5 anni. 
Nel caso in esame, la durata del procedimento penale è stata di quattro anni e cinque mesi e, di conseguenza, la Corte d’appello ha respinto la domanda di indennizzo. 
Ciò che viene contestato dal ricorrente, però, è proprio il computo della durata del processo: a suo dire, infatti, la sentenza impugnata avrebbe errato nell’escludere da tale computo le indagini preliminari e il periodo di tempo intercorso tra il deposito della sentenza di I grado e l’impugnazione. La Cassazione ha però ritenuto rigettare la richiesta in quanto le indagini preliminari si computano solo se conosciute dall’imputato , cosa che avviene di rado ( anche su questo punto a mio avviso ci sarebbe da discutere, semmai in un altro articolo, perché un soggetto può essere indagato senza sapere mai nulla sino alla conclusione delle indagini. Ciò comprometterebbe il diritto di svolgere le indagini difensive facendo fare letteralmente “ le corse” alla difesa sui comodi dell’accusa). Sempre nel caso che ci riguarda, l’imputato non ha dato prova di aver avuto conoscenza delle indagini preliminari a suo carico ed , inoltre, il tempo tra deposito della sentenza e impugnazione non è imputabile all’Amministrazione giudiziaria. Infine non si può computare il termine ultimo di scadenza della proposizione dell’appello. Infatti se l’imputato impugna la sentenza soltanto in prossimità della scadenza di tale termine, provocando così una dilatazione dei tempi processuali, la continuazione del processo per il periodo in cui l’impugnazione non è stata proposta dall’imputato, per mancanza di un’attività di impulso, deve essere addebitata all’imputato stesso e non all’Amministrazione giudiziaria. Il periodo ‘sospeso’ tra i due gradi di giudizio, insomma, non può essere calcolato, ai fini della durata del processo, se attribuibile a inerzia della parte.
Il ricorso, quindi, viene rigettato con sconfitta inesorabile del nostro combattente “Pinto”.

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