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A seguito di un sinistro non trovo lavoro. Voglio il risarcimento! La Cassazione glielo nega!

Oltre che vittima anche la beffa!

Tizia era stata vittima di un incidente stradale in quanto trasportata. A seguito del sinistro ella aveva riportato gravi lesioni tanto da necessitare una lunga degenza che aveva indotto il datore di lavoro a licenziarla. Ecco, quindi, che al danno biologico doveva venir considerato anche l’ulteriore danno per aver perso il posto di lavoro e la difficoltà, in tempo di crisi, a trovare nuova occupazione. Questo almeno così credeva Tizia in quanto la Corte di Cassazione , con sentenza 25221/2011, III Sezione Civile, non le ha dato certamente ragione….anzi!

Ma vediamo come si erano svolti i fatti.

Il sinistro era avvenuto a causa di un tamponamento a catena ove Tizia, quale trasportata nella macchina di mezzo, aveva avuto la peggio.

In primo grado a Tizia non era andata male in quanto le era stato riconosciuto un risarcimento intorno ai 250mila euro.

In Appello, però le cose andavano assai diversamente in quanto la somma risarcitoria veniva ridotta drasticamente: poco più di 95mila euro.

I giudici di secondo grado, ritenevano che «il Tribunale aveva calcolato il danno patrimoniale come se l’incapacità lavorativa della danneggiata corrispondesse al 100 per cento del totale, mentre detta invalidità era stata accertata in sede peritale nella misura del 18 per cento ed ha rettificato il calcolo di conseguenza, in considerazione del fatto che l’infortunata, pur avendo perso il posto di lavoro, avrebbe potuto in futuro dedicarsi ad altra attività».

La donna si sente presa in giro e ricorre fermamente in Cassazione contestando la valutazione economica effettuata dalla Corte di Appello: sono stata licenziata a seguito del sinistro – riferisce la donna – e non riesco a trovare lavoro, com’è possibile non considerare tale danno ?

Inoltre la natura delle lesioni riportate rende difficile riprendere l’attività lavorativa, che richiede fatica fisica: chi mai mi prenderà a lavorare e cosa potro’ effettivamente fare visto che sono capace a fare lavori manuali?

 

 

In base a queste lagnanze la ricorrente ha sostenuto che «il danno patrimoniale da lucro cessante avrebbe dovuto essere valutato in termini non rigorosamente ancorati alla percentuale di invalidità», tenendo presente, piuttosto, che «la riduzione dell’attività lavorativa specifica, che non rientri tra i postumi di lieve entità, consente di presumere che la futura capacità di guadagno ne risulterà ridotta in misura non necessariamente proporzionale alla percentuale di invalidità», come affermato anche dalla giurisprudenza.

La Cassazione riconosce, in parte, le motivazioni di Tizia in quanto sostiene che il danno patrimoniale da lucro cessante può essere valutato anche discostandosi in certa misura dalla percentuale di invalidità accertata in sede peritale, ma, dall’altro lato, le da comunque torto in quanto sottolinea come viene affidato alla parte danneggiata l’onere di dimostrare l’inadeguatezza della misura dell’invalidità accertata, cosa che Tizia non ha fatto.
 Il consulente tecnico aveva quantificato l’invalidità permanente con riferimento non all’invalidità in genere, ma all’incapacità lavorativa specifica dell’infortunata, tenendo conto, cioè, dell’attività di lavoro svolta», mentre la ricorrente non ha indicato «le ragioni per cui la percentuale dovrebbe ritenersi inadeguata alla sua particolare condizione» né le lacune della relazione peritale. E nemmeno può attribuirsi rilievo «alla circostanza che, a seguito delle lesioni e della lunga assenza dal lavoro che ne è seguita, l’infortunata è stata licenziata dal posto di lavoro».
Per questi motivi, il risarcimento dei danni stabilito in Appello viene confermato dalla Cassazione anche se, si badi bene, il ragionamento con cui le due corti giungono alla medesima conclusione è differente.

Tizia ha quindi ricevuto un altro colpo, ancor più severo, inferto dalla macchina della giustizia che le rimarrà addosso per tutta la vita ricordandole che ……chi troppo vuole nulla stringe…..

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